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La rappresentazione di un referente


I critici più antichi hanno messo sotto accusa l’immagine col pretesto che essa fosse, talvolta, non solo fallace e menzognera in quanto rappresentazione di un referente, ma soprattutto dissimulatrice, fraudolenta e ingannevole, per la sua tendenza a mascherare il proprio grado di verità o di falsità sotto un’apparenza illusoria. Le due asserzioni sono naturalmente di carattere ben diverso. E’ vero: in un certo senso, l’immagine materiale o mentale è portata, come ogni rappresentazione sensibile o intellettuale, a non coincidere con il rappresentato: non essendo di per sé la cosa o l’idea, l’immagine non può lasciare margini per uno scarto, anche quando è retta dal principio di somiglianza e di duplicazione. Ma la verità e l’errore di una rappresentazione non riguardano solo il suo contenuto, riguardano anche, come ha sostenuto la filosofia della conoscenza classica, l’atto intellettuale che la incorpora o la rifiuta, che l’adotta o la respinge. La verità di un’immagine non può dunque essere altro che il frutto di un giudizio, di un’intelligenza, di un’operazione cognitiva o di un’interpretazione riflessiva.

Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi 1999

Senza titolo

 

 

 

 

 

 

 

©Edwin Zwakman, Street II, 2004

In una fotografia


“In una fotografia, è il mondo stesso a farsi immagine in noi. Un’immagine che annulla qualsiasi distanza interiore e aderisce, per così dire, all’anima sostituendosi al suo sguardo.” Le immagini ci condannano insomma a una specie di spossamento, di ebetitudine, di indifferenza, dal momento che esse “formano un immenso corpo anonimo caratterizzato da una sostanziale autoreferenzialità del mondo, il quale rinuncia a qualunque mediazione ed è direttamente presente in tutti, è tutti”.

R. Munier, Contre l’image, Gallimard, Paris 1963, in Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi 1999

 

Senza titolo

 

 

 

 

 

 

©Thomas Demand, Studio, 1997