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Archivi delle etichette: Michele Buda

Le regole di un gioco


Le semplici leggi formali dell’arte non sono per loro natura diverse dalle regole di un gioco. Per quanto esse possano essere complicate ed escogitate con ingegno e perizia, esse, in sé e per sé, cioè indipendentemente dallo scopo di vincere il gioco, sono più o meno prive di senso. Le manovre dei giocatori di calcio, a considerarle soltanto come movimenti, non sono soltanto incomprensibili ma anche noiose. La loro velocità e abilità si possono gustare sì, per un certo tempo e anche per se stesse, ma queste prestazioni hanno un peso ben leggero in rapporto a quelle che sa apprezzare chi conosce perfettamente il vero scopo di tutto quel correre, saltare e urtarsi. Se noi non sappiamo niente o non vogliamo sapere niente del fine che l’artista persegue, il fine di insegnare, di persuadere e di esercitare un’influenza, la sua arte non ci dirà molto di più di quanto il gioco del calcio non dica all’incompetente che giudica la bellezza del movimento dei giocatori. L’opera d’arte, nella sua forma più alta, è un messaggio, e se anche coloro che sostengono che condizione preliminare della felice trasmissione del messaggio sia la forma efficace, piacevole, perfetta hanno senza dubbio ragione, tuttavia non meno ragione hanno gli altri, che negano il senso di tale forma senza un messaggio che sia alla base di essa.

A. Hauser in Le teorie dell’arte, Einaudi, Torino 1969

 

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Michele Buda, Jurassik Skatepark, Cesena, 2010

Della Certezza.


Del fatto che a me – o a tutti – sembri così, non segue che sia così. Però si può benissimo chiedere se di questo si possa dubitare sensatamente.

L. Wittgenstein in Della Certezza,  Einaudi,  Torino 1999

 

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Foto di Michele Buda

In arte niente è banale


In arte niente è banale, e una vera fotografia di paesaggio è una metafora. Se una veduta non è nulla di più della raffigurazione di un pezzo di territorio, l’immagine riuscirà a fermare la nostra attenzione solo per poco; preferiremo allora il luogo in sé, che possiamo percepire e odorare e ascoltare oltre che vedere; eppure, allontanandoci dalla scena, speriamo di poterla ritrovare nell’arte. Questo perché non è facile apprezzare la geografia in quanto tale, e speriamo di ricevere dall’artista qualche indicazione per capire il significato di un luogo. […] Forse riponiamo fiducia nella fotografia di paesaggio proprio perché può renderci chiaro quello che già sappiamo. Una scena è più o meno riuscita per il modo in cui si sovrappone alla nostra esperienza delle condizioni e delle possibilità della vita.

R. Adams in La bellezza in fotografia, pp. 9-10, Einaudi, Torino 1995

M.Buda, BN881, Gallipoli, 2008

Tricks and Falls, tre domande a Michele Buda


Metronom: Il movimento, l’azione, la figura non sono mai stati un punto centrale della tua ricerca, come nasce e come si è sviluppata la serie Skatepark?

Michele Buda: Questa ricerca nasce casualmente, nel senso che mi ci sono ritrovato perché accompagnavo mio figlio piccolo in uno Skatepark. Mentre facevo delle fotografie durante le sue evoluzioni ho capito che potevo provare a sviluppare un progetto sul mondo degli skaters. Il mezzo usato (una digitale 35mm) mi ha portato ad usarlo per quello che è stato principalmente progettato: la fotografia d’azione.
Nella serie ci sono anche delle immagini di parti della pista, è qui che ho cercato un collegamento con il mio lavoro precedente, anche se ho fotografato questi oggetti con la fotocamera settata e usata come se fossero degli snapshot.

M: Le fotografie di Skatepark non sembrano fotografie sportive e nemmeno riconducibili al genere di lavoro che molti autori hanno realizzato documentando le comunità skate, penso a Ari Marcopoulos o Ed Templeton, solo per citare due nomi, quanto conta lo skate in queste fotografie?

MB: E’ vero, ho cercato di evitare di fare delle fotografie sportive: per lo più sono fotografie di errori o salti disarticolati. Non compare mai il paesaggio circostante o il cielo che avrebbe aggiunto enfasi al gesto, ci sono solo delle figure schiacciate su una superficie che compare solo perché viene usata per le loro evoluzioni.
Gli autori che citi sono coinvolti direttamente col mondo degli skaters. Per me e per il mio modo di fotografare invece questo mondo, questi luoghi sono essenzialmente un pretesto. Quello che mi interessa della pratica dello skatebording è la continua insistenza a provare e riprovare gli stessi gesti, le stesse figure alla ricerca dell’esercizio perfetto. E a un livello di perfezione, o almeno ad avvicinarsi, si può arrivare  solo dopo molte e molte prove e cadute. E’ un atteggiamento che, ovviamente, mi piace assimilare alla pratica della fotografia.

M: Tricks and Falls è anche un libro fotografico in uscita a breve, quanto c’è di narrativo nel lavoro che proponi?

MB: Il libro è ovviamente diverso dalla mostra e in effetti ho cercato di dare una certa qualità narrativa alla sequenza del libro, ma nonostante questo tentativo rimango convinto che la fotografia non è la pratica più adatta per raccontare delle storie. Siamo noi che quando guardiamo delle fotografie cerchiamo di tessere una trama. E quindi il mio tentativo di racconto non è tanto sulla pratica o sul mondo dello skate, ma sul modo in cui guardiamo le cose attraverso la fotografia.

MIA [Milan Image Art Fair]


Fino alla scorsa settimana la parola MIA era solo un bisbiglio. Da mesi, sottovoce e a mezza bocca nel piccolissimo mondo della fotografia italiana ci si interrogava, vado o non vado?  Ci vai o non ci vai? La fiera si è chiusa ieri sera alle 20, dopo quattro giornate che hanno dato tempo a scettici e coraggiosi di confrontarsi con quello che, in ogni caso, è stato un appuntamento “democratico” con la fotografia.

Si è già scritto di come l’atteggiamento da “circolo”di autori e attori, improntato a protezionismo e alle volte, ad una certa dose di snobismo, non aiuti la divulgazione e la diffusione di una cultura dell’immagine; in questo caso si è assistito a una manifestazione che, nelle intenzioni, mirava a colmare la distanza, la mancanza di contatto tra autore e pubblico.

Formula senz’altro ambiziosa quella ideata da Fabio Castelli e portata avanti dal comitato: stand monografici e la presenza dell’artista nello stand, pronto a rispondere alle domande di interessati e curiosi.

Lo spazio di METRONOM

L’edizione numero zero ha dimostrato la precarietà del regime misto: autori accompagnati da gallerie e autori da candidatura spontanea, accolti senza un criterio limpido, la dicitura “proposta MIA” non chiarisce esattamente la tipologia di proposta…

Gli autori si sono mediamente concessi di buon grado alla maratona fieristica (11 le ore di apertura al giorno ) anche se il pensiero di prestarsi al mercato non sempre è stato gradito, vendere va bene ma a patto che lo facciano i galleristi. L’impressione generale è che ci sia stata poca voglia di osare (ma quando mai in una fiera c’è del coraggio in termini di scelte espositive?) ma il buon successo di pubblico ha confortato partecipanti e non.
E il mercato? Mah… forse ha bisogno di qualche garanzia in più, collezionisti giravano e sono stati ben avvistati negli stand delle gallerie più affermate; nei corridoi si sono però sentite ancora voci che gridano alla “certificazione” e ai rischi della “riproducibilità” che rendono il collezionismo fotografico poco garantito, storie conosciute e anche un po’ trite, che però si fatica a sradicare nel pubblico.

Forse più che tavole rotonde sul  passato, presente o futuro della fotografia, avrebbe giovato offrire al pubblico qualche servizio di visita “guidata” tra i padiglioni, condotta, perché no, da “storici” e “critici” della fotografia, sempre pronti a salire sul tavolo dei relatori  ma a volte meno a “sporcarsi le mani” con il mercato.