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Archivi Mensili: settembre 2013

In una fotografia


“In una fotografia, è il mondo stesso a farsi immagine in noi. Un’immagine che annulla qualsiasi distanza interiore e aderisce, per così dire, all’anima sostituendosi al suo sguardo.” Le immagini ci condannano insomma a una specie di spossamento, di ebetitudine, di indifferenza, dal momento che esse “formano un immenso corpo anonimo caratterizzato da una sostanziale autoreferenzialità del mondo, il quale rinuncia a qualunque mediazione ed è direttamente presente in tutti, è tutti”.

R. Munier, Contre l’image, Gallimard, Paris 1963, in Jean-Jacques Wunenburger, Filosofia delle immagini, Torino, Einaudi 1999

 

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©Thomas Demand, Studio, 1997

Corrispondenze


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Questa abilità di innestare lo sguardo


Questa abilità di innestare lo sguardo in un sistema articolato di idee sui pregi e i difetti della metropoli ha nutrito il dialogo della fotografia con altre discipline – l’urbanistica, l’arte, la sociologia e l’antropologia. Ma dopo un lungo periodo di impollinazione reciproca, oggi questo rapporto fertile tra cultura della fotografia e cultura della città sembra essersi allentato. Proliferano le fotografie di città del mondo, i cataloghi di spazi e le architetture urbane, le registrazioni di eventi transitori, i frammenti di esperienze nei luoghi; eppure sempre meno questa visibilità degli spazi costruiti sembra intesa come un invito a ripensare l’arco più lungo della nostra vita moderna nelle città, sulla quale i fotografi del passato hanno meditato a fondo. Prototipo del viaggiatore lento, di volta in volta dissacrante osservatore dei luoghi comuni o delicato custode del genius loci, nella città dei “non-luoghi” il fotografo sembra aver perso la sua abituale propensione ad aprire rotte inedite in territori conosciuti, a sfidare le regole statuite della polis per attivare nuove pratiche e nuove visioni.

Antonello Frongia, Note sul fotografo come cittadino e saggista, in Guido Guidi, In Between Cities, Rubiera, Linea di Confine 2003

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©Guido Guidi, 54/Malbork /PL
In Between Cities. Un itinerario attraverso l’Europa 1993/1996

Due usi ben differenziati della fotografia


Dobbiamo distinguere fra due usi ben differenziati della fotografia. Ci sono fotografie che appartengono alla sfera privata e fotografie a uso pubblico. La foto privata (il ritratto di una madre, l’immagine di una figlia, la foto di gruppo della propria squadra) è apprezzata e letta in un contesto che è coerente con quello da cui la macchina fotografica l’ha rimossa. (La violenza della rimozione viene espressa talvolta da un moto di incredulità: ma quello è davvero papà?) Ciononostante la fotografia mantiene ancora il significato dell’evento dal quale è stata separata. La macchina fotografica è uno strumento meccanico e viene usata per contribuire a una memoria vivente. La foto è un promemoria tratto da una vita mentre viene vissuta.

In genere la fotografia pubblica contemporanea presenta un evento, cattura una serie di apparizioni che non hanno nulla a che fare con noi, suoi lettori, o con il significato originale dell’evento. Offre informazioni, ma informazioni avulse da qualsiasi esperienza vissuta. Se la foto pubblica contribuisce a una memoria, si tratta della memoria di un assoluto estraneo che non ci è dato di conoscere. La violenza si esprime in questa estraneità. La fotografia registra una visione istantanea che ha fatto esclamare a quell’estraneo: guarda!

John Berger, Sul guardare, Milano, Bruno Mondadori 2009

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© Moira Ricci, 20.12.53 – 10.08.04

C’è chi ha fotografato il sasso


C’è chi ha fotografato il sasso nel momento in cui ha colpito la superficie dell’acqua, godendosi l’abilità della fotocamera di congelare quell’evento cruciale in una frazione di secondo. Si tratta dei fotogiornalisti convenzionali. E poi c’è chi si è concentrato sulle increspature prodotte dalla forza del sasso che ha colpito l’acqua, non fidandosi dell’evento in sé ma ritenendo più significativo l’effetto che ha avuto sulle persone e sui luoghi. Probabilmente si tratta di  photo essayist o, più in generale, di fotografi documentaristi. Quando Henri-Cartier Bresson ricevette un invito esclusivo per l’incoronazione di re Giorgio VI nel 1936, per esempio, aveva tra le mani un potenziale scoop. Ma decise di trascurare l’evento, concentrandosi invece sulle reazioni della povera gente accalcata sulle strade all’esterno, realizzando così alcune delle sue fotografie più memorabili, e per un quotidiano comunista, Ce Soir. Scelse le increspature, non il sasso.

Fred Ritchin, Dopo la fotografia, Torino, Einaudi 2012

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Autore ignoto

Il grande ruolo della fotografia


Il grande ruolo che ha oggi la fotografia, da un punto di vista comunicativo, è quello di rallentare la velocizzazione dei processi di lettura dell’immagine. Rappresenta uno spazio di osservazione della realtà, o di un analogo della realtà (la fotografia è sempre un analogo della realtà) che ci permette ancora di vedere le cose. Diversamente, al cinema e alla televisione la percezione dell’immagine è diventata talmente veloce che non vediamo più niente. E’ come riuscire, una volta tanto, a leggere un articolo di giornale senza che qualcuno ci volti in continuazione le pagine. E’ una forma di lentezza dello sguardo che trovo estremamente importante, oggi, considerato il processo di accelerazione di tipo tecnologico e percettivo che è avvenuto negli ultimi anni. Credo che questo suo carattere specifico di immagine fissa, ferma, il fatto di permettere tempi di lettura lenti, tempi di contemplazione e quindi di approfondimento, non sia mai stato così importante come oggi.

Luigi Ghirri, in Lezioni di fotografia, a cura di Giulio Bizzarri e Paolo Barbaro, Macerata, Quodlibet 2010

 

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Luigi Ghirri, da Fotografie del periodo iniziale, – Alto Adige, 1971

Corrispondenze


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Il ritratto di un idiota


Qual è l’immagine popolare dell’artista? Mettete insieme un migliaio di descrizioni e il risultato composito che ne verrà fuori sarà il ritratto di un idiota: egli è ritenuto infantile, irresponsabile nonché ignaro e ottuso nelle faccende quotidiane. Un ritratto che non comporta necessariamente una censura o una forma di crudeltà. Queste mancanze vengono attribuite all’intensità della preoccupazione dell’artista con la sua peculiare fantasia nonché alla natura oltremondana propria all’immaginario. La tolleranza benigna accordata al professore distratto è estesa all’artista. I biografi contrappongono la grettezza dei suoi giudizi alle realizzazioni sublimi della sua arte, e mentre si parla della sua ingenuità o della sua malizia, queste sono considerate come segni di Semplicità e di Ispirazione, che sono le Ancelle dell’Arte.

Mark Rothko, L’artista e la sua realtà, Ginevra-Milano, Skira 2007

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©Roger Ballen, Factory Worker Holding Portrait of Grandfather, 1996