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Archivi Categorie: Mostra fotografica

La macchina della cultura


La macchina della cultura, muovendosi per imitazione simulata, cioè secondo la logica dell’automa, evoca l’origine per muoverla a proprio vantaggio; nel contempo fa muovere i membri della comunità, assoggettandoli al lavoro sociale del rito, del mito e del sacrificio, della legge e della festa: così ne «normalizza» il comportamento secondo la (sognata) volontà dell’origine, cioè secondo la logica del fantasma. Questa è da sempre la comunità degli umani. La macchina della cultura, la sua macchinazione come grande simulazione fantasmatica dell’origine, non è passibile di giudizio, poiché è al di là del bene e del male, o piuttosto alla loro origine; è il pathos dell’umano, che nel contempo, sprofondando sempre di nuovo nell’indifferenza dell’origine assente, si rivela come nulla: perciò è eminentemente «patetico».

Carlo Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, Torino, Bollati Boringhieri, 2009

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©Taisuke Koyama, Untitled (Burnt), 2007

Dalla serie Entropix, 2006-2009

L’utopia del villaggio


Per cominciare saremmo stati compagni di scuola del postino.
Sapremmo che il miele del maestro è più buono di quello del capostazione (no, non ci sarebbe più un capostazione, ma solo un casellante: da molti anni oramai i treni non fermerebbero più, una linea di autobus li avrebbe sostituiti, ma ci sarebbe ancora un passaggio a livello non ancora automatizzato).
Sapremmo se minaccia di piovere guardando la forma delle nuvole sopra la collina, conosceremmo i posti dove ci sono ancora i gamberi, ci ricorderemmo dell’epoca in cui il meccanico ferrava i cavalli (esagerare un po’, fino ad avere quasi voglia di crederci, non troppo però…) .
Naturalmente conosceremmo tutto di tutti. Tutti i mercoledì il salumiere di Dampierre strombazzerebbe davanti a casa per portarci le salsicce. Tutti i lunedì la signora Blaise verrebbe a fare il bucato.
Andremmo coi bambini a cogliere le more lungo i viottoli di campagna; li accompagneremmo per funghi; li manderemo a cercare lumache.
Staremo attenti al passaggio della corriera delle sette. Ci piacerebbe sedere sulla panchina del paese, sotto l’olmo centenario, di fronte alla chiesa.
Andremmo per i campi con le scarpe alte e un bastone a punta ferrata con l’aiuto del quale decapiteremmo le malerbe.
Giocheremmo a carte con la guardia campestre.
Andremmo a far legna nel bosco comunale.
Sapremmo riconoscere gli uccelli dal loro canto.
Conosceremmo tutti gli alberi del nostro frutteto.
Aspetteremmo il ritorno delle stagioni.

G. Perec in Specie di Spazi, Bollati Boringheri, Torino 1989

pereck

 

 

 

 

 

 

 

Andrea Botto, KA-BOOM, serie

Autoritratto attraverso le cose e figure del mondo


In una celebre e fulminea parabola Borges parla di un pittore che dipinge paesaggi; regni, montagne, isole, persone. Alla fine della sua vita si accorge di aver dipinto, in quelle immagini, il suo volto; scopre che quella rappresentazione della realtà è il suo autoritratto. La nostra identità è il nostro modo di vedere e incontrare il mondo: la nostra capacità o incapacità di capirlo, di amarlo, di affrontarlo e di cambiarlo. Si attraversa il mondo e le sue figure, sulle quali si fissa lo sguardo, ci rimandano come specchi la nostra immagine, le nostre immagini che, man mano si avanza verso la meta finale del viaggio, restano indietro, appartengono via via a un tempo più nostro, relitti che si accumulano nel passato.

C. Magris in W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 2007

 

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Melissa Moore, Sweet Airs, 2012

Tricks and Falls, tre domande a Michele Buda


Metronom: Il movimento, l’azione, la figura non sono mai stati un punto centrale della tua ricerca, come nasce e come si è sviluppata la serie Skatepark?

Michele Buda: Questa ricerca nasce casualmente, nel senso che mi ci sono ritrovato perché accompagnavo mio figlio piccolo in uno Skatepark. Mentre facevo delle fotografie durante le sue evoluzioni ho capito che potevo provare a sviluppare un progetto sul mondo degli skaters. Il mezzo usato (una digitale 35mm) mi ha portato ad usarlo per quello che è stato principalmente progettato: la fotografia d’azione.
Nella serie ci sono anche delle immagini di parti della pista, è qui che ho cercato un collegamento con il mio lavoro precedente, anche se ho fotografato questi oggetti con la fotocamera settata e usata come se fossero degli snapshot.

M: Le fotografie di Skatepark non sembrano fotografie sportive e nemmeno riconducibili al genere di lavoro che molti autori hanno realizzato documentando le comunità skate, penso a Ari Marcopoulos o Ed Templeton, solo per citare due nomi, quanto conta lo skate in queste fotografie?

MB: E’ vero, ho cercato di evitare di fare delle fotografie sportive: per lo più sono fotografie di errori o salti disarticolati. Non compare mai il paesaggio circostante o il cielo che avrebbe aggiunto enfasi al gesto, ci sono solo delle figure schiacciate su una superficie che compare solo perché viene usata per le loro evoluzioni.
Gli autori che citi sono coinvolti direttamente col mondo degli skaters. Per me e per il mio modo di fotografare invece questo mondo, questi luoghi sono essenzialmente un pretesto. Quello che mi interessa della pratica dello skatebording è la continua insistenza a provare e riprovare gli stessi gesti, le stesse figure alla ricerca dell’esercizio perfetto. E a un livello di perfezione, o almeno ad avvicinarsi, si può arrivare  solo dopo molte e molte prove e cadute. E’ un atteggiamento che, ovviamente, mi piace assimilare alla pratica della fotografia.

M: Tricks and Falls è anche un libro fotografico in uscita a breve, quanto c’è di narrativo nel lavoro che proponi?

MB: Il libro è ovviamente diverso dalla mostra e in effetti ho cercato di dare una certa qualità narrativa alla sequenza del libro, ma nonostante questo tentativo rimango convinto che la fotografia non è la pratica più adatta per raccontare delle storie. Siamo noi che quando guardiamo delle fotografie cerchiamo di tessere una trama. E quindi il mio tentativo di racconto non è tanto sulla pratica o sul mondo dello skate, ma sul modo in cui guardiamo le cose attraverso la fotografia.

Scrapbook #festivalfilosofia


Il genere è molto popolare nei paesi di lingua anglosassone, se ne hanno esempi fin dal XV secolo, ma è in realtà con l’invenzione della fotografia che si sono arricchiti di elementi e nuove possibilità. Composti come dei veri e propri album ricordo contengono foto, ritagli di giornale, biglietti del cinema, carte di caramelle o qualsiasi cosa che appartiene a un determinato momento o circostanza e che serve per raccontarne la storia e conservarne la memoria. Oltre alle fotografie, lo scrapbook si compone di frasi, testi brevi o anche solo commenti che arricchiscono la componente di immagini e oggetti. Lo scrapbook diventa, nella mani del suo autore, il luogo per raccontare il passato ma allo stesso tempo per utilizzare il passato per raccontare nuove storie. Foto, ritagli, o qualsiasi cosa trovata o realizzata può essere usato anche per raccontare ciò che vorremmo fosse accaduto o succedesse. La monumentale scultura di Geoffrey Farmer  (Leaves of Grass) realizzata per Documenta 13 ci mostra come un dato reale, in questo caso cinquanta precisi anni di numeri della rivista LIFE e, di rimando, cinquant’anni di storia dal 1935 al 1985,  possano essere il punto di partenza per una messa in scena dai contenuti inediti e rinnovabili di volta in volta, a seconda dello sguardo dello spettatore. Le figure umane, gli oggetti, i volti, i paesaggi ritagliati dalla rivista e incollati su bastoncini di legno sembrano raccontare una potenzialmente infinita serie di storie e modi potenzialmente infiniti di guardare il mondo. La composizione dell’archivio, la ricerca quasi ossessiva di catalogazione, diventano un atteggiamento attivo di ricerca e il passato diventa non solo esperienza da custodire ma una fonte a cui attingere, con uno sguardo al futuro.

Componi una pagina dello scrapbook ispirandoti al festivalfilosofia sulle cose.  Svuota le tasche, la borsa o lo zaino di biglietti, programmi, inviti, fotografie, scontrini o qualsiasi altra cosa che possa comporre la tua pagina ricordo del festival e portali nella sede di Fuorimappa, in via Carteria 8 dal 14 al 16 settembre durante gli orari di apertura della mostra Joe’s Junkyard. Le pagine più belle verranno fotografate e pubblicate su www.metronom.it e l’album completo donato al consorzio festivalfilosofia.

14 – 15 settembre h 9.00 – 23.00

16 settembre h. 9.00 – 21.00

Lisa Kereszi | Joe’s Junk Yard

Fuorimappa by Metronom | 8 via Carteria | Modena

Cinque domande a Martina della Valle


 

1. Vivi a Berlino, sei di Firenze. Cosa hai lasciato e cosa hai trovato.
Vivo a Berlino da quasi quattro anni e da quando sono arrivata ormai i pregi e i difetti che vedevo in questa città sono via via un po’ cambiati, con l’approfondirsi della mia esperienza. A firenze non vivo ormai da tanto tempo. Ho fatto il liceo e poi mi sono trasferita a Milano dove sono rimasta quasi nove anni tra studio e lavoro. Le cose che tutt’ora mi sento di aver guadagnato a spostarmi qua sono molte: prima di tutto la vita qua ha ritmi molto più lenti, o comunque è permesso scegliere di averli, nonostante sia una città molto grande e piena di cose da fare e da vedere. Allo stesso tempo a volte mi manca un po’ la spinta produttiva frenetica che avverto ad esempio a Milano appena torno. Fin da quando ho iniziato a conoscere Berlino ho notato che qua lo spazio pubblico ha un grandissimo valore per i cittadini. Si può considerare che quello che è di tutti è anche mio, mentre a volte in Italia mi sembra che gli spazi comuni non possano esser di nessuno. Questo pensiero rende Berlino una città in cui lo spazio è tanto e viene utilizzato in maniera spontanea dalle persone. Questo dà in qualche modo un forte senso di appartenenza e di libertà. In più qua mi pare che la scala dei valori nella vita delle persone abbia priorità diverse che permettono di vivere in maniera forse più semplice ma più serena. Dal punto di vista della mia attività artistica Berlino offre molte facilitazioni rispetto all’italia; esistono molte strutture come laboratori pubblici in cui si può sperimentare e produrre con qualsiasi tipo di materiale e linguaggio, moltissime mostre e musei e spazi aperti e accessibili. Dal mio punto di vista è per il momento un ottimo posto in cui stare per produrre e fare ricerca.

2. Come vedi, da fuori, il sistema dell’arte italiano?
Il sistema dell’arte Italiano da qua appare molto selettivo e ingarbugliato. Spesso non si capiscono bene le logiche che muovono le cose, e sembra che ci siano circuiti molto chiusi che si muovono separatamente. Il non essere fisicamente più presente in Italia, vivendo fuori, rende più difficile il mantenere i contatti, ma apre dall’altra parte nuove possibilità.

3. Vivere in Germania sta influenzando la tua ricerca artistica?
Non direi che la mia ricerca sia cambiata stando qua. I temi e le pratiche sono rimaste le mie  ma ovviamente alcuni degli spunti dei miei ultimi lavori hanno a che fare con Berlino (vedi la serie FRAMED MEMORIES che è nata da un archivio fotografico privato berlinese, o ad esempio l’installazione URBAN IMPRESSION che ho realizzato qua per l’Ambasciata Italiana)  

4. A cosa stai lavorando attualmente?
In questo momento sto lavorando a un progetto site-specific per la fiera di Roma, al materiale per un paio di concorsi, al lavoro per una collettiva sull’autoritratto al MACRO a giugno…

5. Tre keywords per definire l’arte oggi.
Non saprei credo che l’arte come pratica o sistema sia molto complessa da descrivere. Direi quindi sicuramente COMPLESSA per iniziare…

Martina della Valle, 1981. Vive e lavora tra Milano, Firenze e Berlino.
Il tema della memoria, nelle sue diverse accezioni, è costantemente presente nel suo lavoro.

http://martinadellavalle.blogspot.com/ 

pics from TIME DUST – METRONOM © Martina Della Valle

courtesy Marco Signorini Photoblog

 

Tre domande a Marco Signorini


Inaugura sabato 18 febbraio alle 18.30 la mostra OPENSTUDIO, che propone una selezione di giovani autori provenienti dall’Accademia di Belle Arti di Brera e dall’Accademia di Bologna. Ne parliamo con Marco Signorini, docente a Brera e selezionatore, insieme a Walter Guadagnini, della collettiva.

METRONOM: Rigoroso bianco e nero  ma anche fotografia a metà tra collage e installazione, nel mezzo un ampio ventaglio di tecniche, è stata una scelta oppure è effettivamente così variegato il modo degli studenti di confrontarsi con il dato tecnico della fotografia?

Marco Signorini: Direi che le modalità con le quali gli studenti si confrontano con la tecnica fotografica sono le più svariate, questo è vero. C’è un mix interessante fra analogico e digitale, bianco e nero e colore, moda e reportage. L’impressione è che la fotografia, come siamo stati abituati a pensarla, non possa più catalogarsi in categorie di genere, l’una attraversa l’altra. Tener conto di questo atteggiamento “aperto” è importante, credo faccia parte di una visione del mondo più libera dagli schemi, sia tecnici che linguistici. Non solo, credo sia anche portare totalmente la fotografia in un ambito artistico più generalizzato.

M: Le opere lasciano trasparire la tendenza all’espressione di una sensibilità individuale e di un proprio immaginario, nessuna traccia di temi “sociali” o “politici”, lo attribuisci alla giovane età e quindi alla voglia di esprimersi più che di confrontarsi?

MS: La risposta a questa domanda si ricollega in parte alla precedente, credo sia cambiato l’atteggiamento, che l’analisi del mondo circostante, da parte dei giovani, nasca da altri presupposti. Uno di questi è la messa in scena, oppure l’inserimento di se stessi all’interno delle loro selezioni, oppure l’aderire a poetiche trasversali che esprimono un certo modo di fare fotografia. Questo mette in discussione anche l’aspetto fortemente autoriale delle immagini prodotte, tanto che, navigando ad esempio su Flickr, poi avvertire più forte il fenomeno estetico così diffuso, più che distinguere i singoli autori che lo alimentano. In realtà, trovo tutto a suo modo impegnato, ma di difficile catalogazione.

M: Si registra una grande varietà di corsi, workshop e anche master dedicati all’immagine, c’è quindi molta richiesta di “formazione” specifica anche extra accademica, a tuo parere che cosa rende a tutt’oggi importante una formazione nelle Accademie di Belle Arti?

MS: Per quanto mi riguarda considero ancora importante un insegnamento istituzionale di valore, come potrebbe esserlo quello trasmesso nelle accademie nazionali.
Il fatto che non ci sia credibilità in queste istituzioni, con i relativi problemi di qualità dell’istruzione, sia in termini di docenza e di adeguati spazi attrezzati disponibili, è un fatto molto grave. Cosiderando poi, che c’è molta richiesta di formazione artistica, trovo questa disattenzione istituzionale paradossale in un paese come il nostro, che potrebbe trarre buoni profitti dalla cultura dell’arte e da un patrimonio artistico senza eguali.

OPEN STUDIO


Inaugura sabato 18 febbraio 2012 alle 18.30 OPENSTUDIO, mostra collettiva che riunisce opere fotografiche di Giulia Azzalini, Alessio Iacovone, Tiziano Rossano Mainieri, Simone Morciano, Luca Nicolini e Valentina Sala Peup.

Per l’occasione, negli spazi di METRONOM, saranno esposte le opere di sei giovani fotografi selezionati da Walter Guadagnini e Marco Signorini. Un percorso che parte dall’Accademia di Brera e arriva all’Accademia di Bologna, per scoprire le spinte più fresche della fotografia contemporanea.

OPENSTUDIO propone un percorso composto da fotografie naturalistiche in bianco e nero, scatti fotografici realizzati all!interno di ambienti domestici e luoghi dove architettura e paesaggio si incontrano armoniosamente, passando per ritratti e sperimentazioni più audaci, caratterizzate dall’utilizzo di tecniche e codici differenti.

La mostra, realizzata con il Patrocinio del Comune di Modena, nasce con l’intento di proporre una lettura di possibili nuovi scenari per la giovane fotografia italiana e sarà visitabile fino al prossimo 31 marzo 2012.

Giulia Azzalini (Torino, 1988) presenta Light Boxes, un progetto che nasce da una suggestione letteraria e che fa riferimento al titolo del romanzo primo di Shane Jones. Per tre stagioni l’artista ha fotografato la luce nel tentativo di appropriarsi ogni giorno dell’essenza della vita, sperimentando sul proprio corpo come la luce, intesa come elemento essenziale della fotografia, possa creare delle vere e proprie trasfigurazioni.

Casting the spell è una serie costituita da undici elementi che Alessio Iacovone (Sulmona, 1988) ha realizzato utilizzando diverse modalità espressive: la fotografia si mescola al disegno e all’utilizzo di elementi materici ed evocativi come petali di fiori essiccati, ali di farfalla, ossi. Una riflessione che prende spunto da un trattato di alchimia di Paracelso e analizza un percorso di evoluzione spirituale che, attraverso la sofferenza e l’espiazione, arriva alla consapevolezza di sé e alla beatitudine o sublimazione della materia.

Tiziano Rossano Mainieri (Bologna, 1982) concentra il suo lavoro sulla fotografia paesaggistica. La serie Radici è una raccolta di gli scatti di un bianco e nero dove domina il tema della natura, la rappresentazione di un mondo che sta oltre la semplice percezione.

Le fotografie di Simone Morciano (Verona, 1983) fanno parte di un ampio progetto per il quale l’artista ha fotografato gli stessi luoghi in giorni, orari e condizioni metereologiche differenti. Fotografie che nascono come esercizi di osservazione e divengono veri e propri tentativi di riscoperta della realtà, una sorta di presa di coscienza del territorio circostante.

Luca Nicolini (Rovereto, 1985) presenta Ultimo Giorno di Luce, un soggetto che si basa sulla rielaborazione in chiave evocativa dei concetti di luce e di tempo, intesi come elementi propri dello specifico fotografico. La fotografia diviene un modo per tradurre il pensiero in immagini: le persone, riprese in maniera sfuggevole e indefinita, si dissolvono in un tentativo di riflessione sulla fugacità dell’esistenza.

Il progetto di Valentina Sala Peup (Monza, 1988) dal titolo Saudade nasce sottoforma di libro ed è composto fotografie accompagnate da due scritti tratti dal film “il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. Il termine Saudade, in portoghese, fa riferimento ad un singolare stato emotivo che l’artista cerca di catturare nell’immagine fotografica.

Sede: METRONOM | viale G. Amendola, 142 Modena
tel/fax +39 059 344692 | info@metronom.it | www.metronom.it
Orari: da martedì a sabato 15.00 / 19.00 e su appuntamento

Paris & Photo


La capitale francese si conferma centro di elezione per le arti dell’immagine; un novembre ricchissimo in termini di offerta che contribuisce al dibattito e alimenta comprensione e riflessione sul contemporaneo scenario della fotografia.

Paris Photo non sbaglia nell’edizione 2011 appena conclusa: abbandonata l’angusta per quanto prestigiosa sede del Carrousel du Louvre, si è proposta negli ampi e scenografici spazi del Grand Palais e, giusto per dare qualche numero, con 135 espositori tra gallerie e editori con provenienze da 23 paesi. Come sempre un focus “geografico” a fare da traino alla manifestazione, quest’anno dedicata all’Africa che con i Rencontres de Bamako propone un’eccellente selezione di giovani autori oltre ai già affermati nomi di Malick Sidibè, David Goldblatt e Roger Ballen per citare alcuni tra quelli presentati dalla gallerie.

Ma la fiera è anche l’occasione per muoversi in città, seguendo un programma collaterale di “visioni” sempre molto ricco e curato. Vale la pena un viaggio alla delegazione parigina della Fondazione Gulbenkian, che alloggia in un nuovo spazio da pochissimo aperto al pubblico, proponendo una mostra di apertura a tema “territorio trasformato”. D’accordo il tema non è proprio una novità ma Transformed land è una ricognizione del lavoro di nove autori raccolti intorno al modo di rappresentare il paesaggio che parte sì da un’attenta indagine topografica del territorio, per ampliarsi poi verso le connotazioni storiche e culturali che le trasformazioni portano con sé.

Il danese Joachim Koester ci offre un esempio di questa tendenza con un lavoro costruito sull’opposizione tra realtà e, intesa come immaginazione letteraria, che trova il suo compimento nella serie From the Travel of Jonathan Harker, dieci fotografie scattate nella valle di Burgau in Transilvania, nei luoghi che hanno costituito lo scenario per il Dracula di Bram Stoker. Nel 2003 Koester ripercorre i luoghi attraversati dal protagonista del romanzo in un viaggio che documenta un territorio variamente modificato da eventi atmosferici ma anche da recenti speculazioni edilizie che si affiancano alle “rovine” del comunismo, costruendo un leggibile intreccio tra memoria letteraria e presente.

La ricerca fotografica del belga Geert Goiris si affida ad una cifra chiara e netta, oggettiva, che sorprende però nell’approccio assolutamente meditativo con cui affronta i luoghi e il paesaggio. “Viaggio esplorando i luoghi che mi incuriosiscono”, dichiara al limite del banale Goiris, le sue fotografie hanno però una resa tutt’altro che banale, accompagnandoci in un raffinato gioco di associazioni tra luogo geografico e matassa tematica contemporanea.

Sono al limite del naturalismo le fotografie realizzate dall’americano Collier Schorr che propone una serie di “composizioni” di fiori inserite nel paesaggio. Rinunciando a qualsiasi connotazione storica, geografica o politica del territorio, Schorr ci trasporta in una dimensione in cui il tempo è contemporaneamente sospeso e dilatato, grazie a una costruzione quasi iper-realista che non può non suggerire riflessioni sull’uso iconico dell’immagine contemporanea.

Sempre di territorio e di luoghi si parla a Le BAL, istituzione fondata dall’associazione “amici” dell’agenzia Magnum che, fedele alla vocazione documentarista, propone la mostra collettiva Topographies de la Guerre. Il taglio della mostra esclude volutamente scene esplicite di conflitto aperto, di morte, di battaglia per proporre una variazione sul tema utilizzando l’approccio topografico: ciò che accomuna i lavori presentati è la totale assenza della figura umana.

Si ritrova quindi la ricerca del libanese Walid Raad, con una parte dell’archivio del fittizio collettivo Atlas Group, creato da Raad come depositario della storia del Libano contemporaneo: le mappe i simboli che le abitano costituiscono la testimonianza di una nuova entità geografica.

L’approccio di Paola de Pietri, decisamente più canonico visivamente parlando, fotografa le tracce della Prima Guerra Mondiale, trincee, bunker o fortificazioni tra Alpi, Prealpi e Carso, in cui l’elemento naturale prende il sopravvento sulla rovina, inglobandola quasi riappropriandosene. Citazioni da Deserto dei Tartari per una celebrazione del paesaggio che diventa scena e soggetto al tempo stesso, in totale assenza di azione.

Gli Outposts di Donovan Wylie sono le torri di vedetta che gli inglesi costruirono a delimitare il confine tra Irlanda del Nord e del Sud. Una volta dismesse sono state a più riprese smantellate e riutilizzate in un altro territorio di guerra, l’Afghanistan. Un sottile gioco di allusione e denuncia, un riciclo ecologicamente sinistro che lega il passato a un presente in cui il conflitto, tra censure e tecniche di guerra, è sempre più difficilmente documentabile, rendendo necessario il gioco di “andare oltre le apparenze”.

In tutto questo viaggio di meta riflessioni sulla documentazione, tra citazioni di Augè e più o meno nuove vie per la fotografia contemporanea, è una ventata di leggerezza visiva la mostra di Markus Raetz allestita alla Bibliothèque National de France. Partendo da oggetti quotidiani anche di duchampiana memoria o con dichiarate citazioni magrittiane, Raetz regala un crescendo di sorprese per un’arte che è un dare e ricevere continuo. Tra linguaggio, percezione e giochi mentali, nella selezione di stampe e sculture proposte in mostra si raccolgono infiniti spunti di riflessione per un lavoro che chiede, anzi, necessita, delle connessioni occhio/cervello dello spettatore. Un invito a guardare attraverso il “binocolo” che ognuno di noi possiede per ottenere un sofisticato gioco di relativismo artistico.

courtesy Paneacqua

Delitti perfetti


Il colpo d’occhio è  quello di una banale quotidianità: mobili, tende, oggetti, fotografie o ritagli di giornale alle pareti, sembrano scene di un ordinario interno domestico, ma ad uno sguardo più attento si rivelano in tutta la loro inquietante presenza.

Gli scatti di Annabel Elgar appartengono a quella che si usa definire staged photography, genere che prende a prestito dal linguaggio cinematografico l’uso di ambienti costruiti all’occorrenza. Ma le scene di Elgar hanno tutto il calore e il colore di una vita vissuta, lontane dall’artificio sia negli interni, minuziosamente abitati, sia nella quasi banalità dei paesaggi. Sembra di entrare in un mondo di fiabe politicamente scorretto: i pupazzi che abitano il bosco hanno volti mascherati e gli interni, le stanze, sempre chiuse, sono rischiarate da una luce che rivela più che illuminare; i -rari- personaggi che abitano gli scatti sono fittizi e sinistri come i ritagli di giornale sulle pareti o il pane in cassetta, improbabile decoro sullo scaffale.

Annabel Elgar - Assembly, 2010

“Dovremmo a questo punto confinare tutte queste supposizioni nel campo della fantasia e lì lasciarle, trattandosi di fiction? Conviene invece considerare il rapporto che queste immagini intrattengono con un’intera tipologia di reali fatti di cronaca, che compaiono periodicamente sui mezzi di informazione: le storie di sette religiose segrete, di rituali collettivi impensabili, di forti personalità ossessionate da credenze superstiziose.”, scrive Daniele De Luigi nel testo che accompagna la mostra;  sono infatti scenari che riportano alla cronaca dei giornali, sempre più accanita nell’illustrare a parole e, soprattutto, con immagini, particolari “per dovere di cronaca”; l’insistere sul dettaglio, sui nomi dei protagonisti quasi in gergo colloquiale, ci porta ad assorbire, inglobare, questi dettagli nel nostro immaginario.

I teatrini di Elgar ricordano un po’ le macabre ricostruzioni in stile plastico dei luoghi del delitto ad uso giudiziario-televisivo, i plotoni di strane maschere o di calzari sembrano ritratti omettendo volutamente il nastro da “scena del crimine”, degno della migliore cronaca nera. E’ una fotografia che volutamente si riempie di dettagli narrativi, di raffinate allusioni ed illusioni, raccontando, con uno sguardo al passato, un contemporaneo al limite del gotico, che non trascura allusioni magiche. Non c’è nessuna “sicurezza degli oggetti” che anzi sbucano minacciosi in raffinati giochi di chiaroscuri o si ergono con inquietante ironia ad abitanti di un mondo fittizio, talmente fittizio che potrebbe tranquillamente essere quello del nostro vicino di casa.

 

INTERLUDIO | Annabel Elgar

Inaugurazione sabato 19 novembre ore 18.30

METRONOM, viale G. Amendola 142, Modena