La capitale francese si conferma centro di elezione per le arti dell’immagine; un novembre ricchissimo in termini di offerta che contribuisce al dibattito e alimenta comprensione e riflessione sul contemporaneo scenario della fotografia.
Paris Photo non sbaglia nell’edizione 2011 appena conclusa: abbandonata l’angusta per quanto prestigiosa sede del Carrousel du Louvre, si è proposta negli ampi e scenografici spazi del Grand Palais e, giusto per dare qualche numero, con 135 espositori tra gallerie e editori con provenienze da 23 paesi. Come sempre un focus “geografico” a fare da traino alla manifestazione, quest’anno dedicata all’Africa che con i Rencontres de Bamako propone un’eccellente selezione di giovani autori oltre ai già affermati nomi di Malick Sidibè, David Goldblatt e Roger Ballen per citare alcuni tra quelli presentati dalla gallerie.
Ma la fiera è anche l’occasione per muoversi in città, seguendo un programma collaterale di “visioni” sempre molto ricco e curato. Vale la pena un viaggio alla delegazione parigina della Fondazione Gulbenkian, che alloggia in un nuovo spazio da pochissimo aperto al pubblico, proponendo una mostra di apertura a tema “territorio trasformato”. D’accordo il tema non è proprio una novità ma Transformed land è una ricognizione del lavoro di nove autori raccolti intorno al modo di rappresentare il paesaggio che parte sì da un’attenta indagine topografica del territorio, per ampliarsi poi verso le connotazioni storiche e culturali che le trasformazioni portano con sé.
Il danese Joachim Koester ci offre un esempio di questa tendenza con un lavoro costruito sull’opposizione tra realtà e, intesa come immaginazione letteraria, che trova il suo compimento nella serie From the Travel of Jonathan Harker, dieci fotografie scattate nella valle di Burgau in Transilvania, nei luoghi che hanno costituito lo scenario per il Dracula di Bram Stoker. Nel 2003 Koester ripercorre i luoghi attraversati dal protagonista del romanzo in un viaggio che documenta un territorio variamente modificato da eventi atmosferici ma anche da recenti speculazioni edilizie che si affiancano alle “rovine” del comunismo, costruendo un leggibile intreccio tra memoria letteraria e presente.
La ricerca fotografica del belga Geert Goiris si affida ad una cifra chiara e netta, oggettiva, che sorprende però nell’approccio assolutamente meditativo con cui affronta i luoghi e il paesaggio. “Viaggio esplorando i luoghi che mi incuriosiscono”, dichiara al limite del banale Goiris, le sue fotografie hanno però una resa tutt’altro che banale, accompagnandoci in un raffinato gioco di associazioni tra luogo geografico e matassa tematica contemporanea.
Sono al limite del naturalismo le fotografie realizzate dall’americano Collier Schorr che propone una serie di “composizioni” di fiori inserite nel paesaggio. Rinunciando a qualsiasi connotazione storica, geografica o politica del territorio, Schorr ci trasporta in una dimensione in cui il tempo è contemporaneamente sospeso e dilatato, grazie a una costruzione quasi iper-realista che non può non suggerire riflessioni sull’uso iconico dell’immagine contemporanea.
Sempre di territorio e di luoghi si parla a Le BAL, istituzione fondata dall’associazione “amici” dell’agenzia Magnum che, fedele alla vocazione documentarista, propone la mostra collettiva Topographies de la Guerre. Il taglio della mostra esclude volutamente scene esplicite di conflitto aperto, di morte, di battaglia per proporre una variazione sul tema utilizzando l’approccio topografico: ciò che accomuna i lavori presentati è la totale assenza della figura umana.
Si ritrova quindi la ricerca del libanese Walid Raad, con una parte dell’archivio del fittizio collettivo Atlas Group, creato da Raad come depositario della storia del Libano contemporaneo: le mappe i simboli che le abitano costituiscono la testimonianza di una nuova entità geografica.
L’approccio di Paola de Pietri, decisamente più canonico visivamente parlando, fotografa le tracce della Prima Guerra Mondiale, trincee, bunker o fortificazioni tra Alpi, Prealpi e Carso, in cui l’elemento naturale prende il sopravvento sulla rovina, inglobandola quasi riappropriandosene. Citazioni da Deserto dei Tartari per una celebrazione del paesaggio che diventa scena e soggetto al tempo stesso, in totale assenza di azione.
Gli Outposts di Donovan Wylie sono le torri di vedetta che gli inglesi costruirono a delimitare il confine tra Irlanda del Nord e del Sud. Una volta dismesse sono state a più riprese smantellate e riutilizzate in un altro territorio di guerra, l’Afghanistan. Un sottile gioco di allusione e denuncia, un riciclo ecologicamente sinistro che lega il passato a un presente in cui il conflitto, tra censure e tecniche di guerra, è sempre più difficilmente documentabile, rendendo necessario il gioco di “andare oltre le apparenze”.
In tutto questo viaggio di meta riflessioni sulla documentazione, tra citazioni di Augè e più o meno nuove vie per la fotografia contemporanea, è una ventata di leggerezza visiva la mostra di Markus Raetz allestita alla Bibliothèque National de France. Partendo da oggetti quotidiani anche di duchampiana memoria o con dichiarate citazioni magrittiane, Raetz regala un crescendo di sorprese per un’arte che è un dare e ricevere continuo. Tra linguaggio, percezione e giochi mentali, nella selezione di stampe e sculture proposte in mostra si raccolgono infiniti spunti di riflessione per un lavoro che chiede, anzi, necessita, delle connessioni occhio/cervello dello spettatore. Un invito a guardare attraverso il “binocolo” che ognuno di noi possiede per ottenere un sofisticato gioco di relativismo artistico.
courtesy Paneacqua