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Archivi delle etichette: Mostra Modena

Tre domande a Esther Mathis


METRONOM: Ambiente, fenomeno naturale, registrazione, sono tre concetti che sembrano fondanti del tuo lavoro, si può rintracciare una gerarchia, un punto di avvio tra questi per la tua ricerca?

ESTHER MATHIS: Cerco sempre di analizzare quello che mi circonda per capire meglio, perché vedo o sento certe cose. Ognuno di noi ha una differente percezione del mondo, che viene tra altre cose influenzata dalle nostre esperienze. Per questo ho iniziato a escludere la possibilità di trovare un linguaggio che vale per tutti; invece cerco di analizzare le cose che ci circondano con un metodo più scientifico, che forse mi riesce a dare delle risposte anche alle domande più personali che parlano di relazioni e sentimenti.

 

M:Per una attività di ricerca, di registrazione, il risultato quasi al limite dell’astrazione che caratterizza il tuo lavoro può sembrare un controsenso, il dato dovrebbe essere leggibile… è davvero così?

EM: Le immagini hanno la particolarità che possono aprire delle porte dentro le persone che le guardano. E per ognuno saranno porte diverse. O magari anche nessuna. Questa loro carattere di indefinitezza vorrei proprio lasciare non sfiorato o mutato. Metto in campo due tipi di ricerca: uno è un tentativo di trovare un’immagine interiore nella natura che poi è spesso in forma di un paesaggio. Anche se la sua forma è visibile e ben definito lascia spazio all’osservatore di interpretarlo fino ad un certo punto, utilizzando la propria esperienza. In altri casi parto da una ricerca molto esatta, precisa, per catturare degli indizi o residui. Seguo poi questi indizi, e a volte mi portano ad un risultato totalmente astratto come il lavoro dei portanegativi. In questo secondo caso l’osservatore è invitato a rintracciare la mia ricerca proprio perché il lavoro finale é astratto e si mostra al primo sguardo come una cosa che non è. Cerco sempre di attirare l’attenzione della persona che guarda per poi provocare una reazione. Mi concentro più su cosa provocano le mie opere che su cosa sono.

 

M:La presentazione del tuo lavoro è spesso un insieme di tecniche diverse, c’è molta competenza e cura per ciò che riguarda la resa l’immagine, sia fotografica che video, allo stesso tempo però l’installazione è altrettanto importante per una lettura completa delle opere, è una pratica che trovi attuale nel modo di interpretare l’immagine contemporanea o è la risposta a una tua esigenza precisa?

EM: Vengo dal mondo della fotografia ma sono sempre stata brava a costruire cose. L’uso delle tecniche diverse viene da esigenze varie che richiedono alcuni lavori. A volte serve la registrazione di tempo per visualizzare un momento, un processo. E in un caso cosi mi adatto al progetto e uso video. Come questo esempio vale anche per le istallazioni e le fotografie. Ogni progetto ha una sua forma e mi costringe di usare il medium adatto.

 

untitled01

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

©Esther Mathis – untitled 01 – gelatin silver print of a hair sample.

 

Tricks and Falls, tre domande a Michele Buda


Metronom: Il movimento, l’azione, la figura non sono mai stati un punto centrale della tua ricerca, come nasce e come si è sviluppata la serie Skatepark?

Michele Buda: Questa ricerca nasce casualmente, nel senso che mi ci sono ritrovato perché accompagnavo mio figlio piccolo in uno Skatepark. Mentre facevo delle fotografie durante le sue evoluzioni ho capito che potevo provare a sviluppare un progetto sul mondo degli skaters. Il mezzo usato (una digitale 35mm) mi ha portato ad usarlo per quello che è stato principalmente progettato: la fotografia d’azione.
Nella serie ci sono anche delle immagini di parti della pista, è qui che ho cercato un collegamento con il mio lavoro precedente, anche se ho fotografato questi oggetti con la fotocamera settata e usata come se fossero degli snapshot.

M: Le fotografie di Skatepark non sembrano fotografie sportive e nemmeno riconducibili al genere di lavoro che molti autori hanno realizzato documentando le comunità skate, penso a Ari Marcopoulos o Ed Templeton, solo per citare due nomi, quanto conta lo skate in queste fotografie?

MB: E’ vero, ho cercato di evitare di fare delle fotografie sportive: per lo più sono fotografie di errori o salti disarticolati. Non compare mai il paesaggio circostante o il cielo che avrebbe aggiunto enfasi al gesto, ci sono solo delle figure schiacciate su una superficie che compare solo perché viene usata per le loro evoluzioni.
Gli autori che citi sono coinvolti direttamente col mondo degli skaters. Per me e per il mio modo di fotografare invece questo mondo, questi luoghi sono essenzialmente un pretesto. Quello che mi interessa della pratica dello skatebording è la continua insistenza a provare e riprovare gli stessi gesti, le stesse figure alla ricerca dell’esercizio perfetto. E a un livello di perfezione, o almeno ad avvicinarsi, si può arrivare  solo dopo molte e molte prove e cadute. E’ un atteggiamento che, ovviamente, mi piace assimilare alla pratica della fotografia.

M: Tricks and Falls è anche un libro fotografico in uscita a breve, quanto c’è di narrativo nel lavoro che proponi?

MB: Il libro è ovviamente diverso dalla mostra e in effetti ho cercato di dare una certa qualità narrativa alla sequenza del libro, ma nonostante questo tentativo rimango convinto che la fotografia non è la pratica più adatta per raccontare delle storie. Siamo noi che quando guardiamo delle fotografie cerchiamo di tessere una trama. E quindi il mio tentativo di racconto non è tanto sulla pratica o sul mondo dello skate, ma sul modo in cui guardiamo le cose attraverso la fotografia.

I miei libri non sono semplicemente dei cataloghi…


I miei libri non sono semplicemente dei cataloghi dei lavori, quanto piuttosto dei lavori autonomi. L’idea del libro è un punto fondamentale, è l’opera, l’opera cinematografica, è il film che ti permette di trasmettere il significato che, all’interno di un singolo lavoro, difficilmente riesce a venire fuori. Mi piace lavorare per episodi, che dovrebbero essere l’essenza dei vari progetti. Mi piacciono molto i libri strutturati per racconti, mi piace che vari racconti, messi insieme riescano a trovare un significato ulteriore, a divenire una storia più strutturata. E’ come dispensare lentamente le cose, lasciando decantare i lavori, magari per anni, per poi utilizzarli in una nuova chiave come sta capitando per questa mostra. Quest’operazione offre la dimensione reale del mutamento. Dà la possibilità di rileggere quello che si è fatto nel passato, e in qualche modo, di riattualizzarlo.

Marco Signorini, in Earthheart, Bologna, Damiani 2011

The Morning News intervista a Sanna Kannisto


Le fotografie di Sanna Kannisto propongono un “dietro le quinte” delle scienze naturali, immagini che rivelano come arte e scienza siano molto vicine nel modo di costruire, ordinare e definire la nostra immagine della natura.

Nicole Pasulka: Dove sono state scattate le fotografie?

Sanna Kannisto: Le immagini contenute nel libro Fieldwork sono state scattate negli anni 2000-2010. Sono state realizzate in Costa Rica, in Brasile, nella Guiana Francese in vari luoghi differenti.

NP: Ho letto che hai lavorato a stretto contatto con scienziati e ricercatori in America Latina, come hai interpretato la relazione tra arte e scienza?

SK: Mi piace pensare il mio ruolo come quello di una sorta di mediatore tra arte e scienza, disegnando parallelismi tra le due discipline ma lavorando molto liberamente.

NP: Che cosa può insegnare il metodo di ricerca scientifica a un artista, in modo particolare nello studiare un particolare oggetto o argomento? Che cosa ha insegnato a te?

SK: Leggere studi scientifici mi ha fornito importanti informazioni di base e alle volte anche idee. Li ho sempre usati come “bozze” di materiali per poi darne una personale interpretazione. Non è necessario per me comprendere integralmente la materia degli articoli scientifici, ma quel tanto che basta per realizzare il mio lavoro.

Per esempio ho imparato molte cose riguardanti l’alimentazione a base di nettare dei pipistrelli e questo mi ha aiutato praticamente a lavorare con loro. Ho anche imparato molto su piante e fiori che loro impollinano, così sono stata in grado di trovare quelle specie per realizzare il lavoro fotografico.

NP: C’è mai un modo in cui un artista è in grado di migliorare o accrescere gli studi scientifici?

SK: Come artista cerco di esplorare quello che è il mio ruolo, interpretando e producendo informazioni “visive” che metto poi a disposizione di tutti e allo stesso tempo cerco nel mio lavoro di avere un occhio critico, come quello del metodo scientifico. L’idea del mondo che la scienza ci fornisce necessita costanti aggiustamenti e correzioni. La fotografia e la scienza sono strettamente legate, perché c’è questa sorta di idea di oggettività o di apparente oggettività che accomuna le due pratiche. Tutti sappiamo che la fotografia è stata usata come una prova di evidenza scientifica fina dalle sue origini. Sia la verità della scienza che quella della fotografia sono spesso costruite per rispondere a esigenze istituzionali specifiche o, come nel caso del mio lavoro, funzionali alle mie necessità artistiche.

NP: L’arte o la fotografia possono dare una visione distorta o mediata della natura?

SK: La nostra visione della natura è sempre mediata dalla nostra cultura. Il nostro approccio con la natura avviene sempre attraverso differenti prospettive, teorie, modelli, metodi e concetti.

NP: A quale progetto stai lavorando ora?
SK: Ho iniziato un progetto nelle foreste del nord Europa e della Russia. Ho in mente di lavorare con lo stesso metodo seguito ai tropici. Che non significa che non tornerò più in quelle zone, ma al momento questo è quello che mi interessa fare.

Copyright The morning news, traduzione METRONOM

OPEN STUDIO


Inaugura sabato 18 febbraio 2012 alle 18.30 OPENSTUDIO, mostra collettiva che riunisce opere fotografiche di Giulia Azzalini, Alessio Iacovone, Tiziano Rossano Mainieri, Simone Morciano, Luca Nicolini e Valentina Sala Peup.

Per l’occasione, negli spazi di METRONOM, saranno esposte le opere di sei giovani fotografi selezionati da Walter Guadagnini e Marco Signorini. Un percorso che parte dall’Accademia di Brera e arriva all’Accademia di Bologna, per scoprire le spinte più fresche della fotografia contemporanea.

OPENSTUDIO propone un percorso composto da fotografie naturalistiche in bianco e nero, scatti fotografici realizzati all!interno di ambienti domestici e luoghi dove architettura e paesaggio si incontrano armoniosamente, passando per ritratti e sperimentazioni più audaci, caratterizzate dall’utilizzo di tecniche e codici differenti.

La mostra, realizzata con il Patrocinio del Comune di Modena, nasce con l’intento di proporre una lettura di possibili nuovi scenari per la giovane fotografia italiana e sarà visitabile fino al prossimo 31 marzo 2012.

Giulia Azzalini (Torino, 1988) presenta Light Boxes, un progetto che nasce da una suggestione letteraria e che fa riferimento al titolo del romanzo primo di Shane Jones. Per tre stagioni l’artista ha fotografato la luce nel tentativo di appropriarsi ogni giorno dell’essenza della vita, sperimentando sul proprio corpo come la luce, intesa come elemento essenziale della fotografia, possa creare delle vere e proprie trasfigurazioni.

Casting the spell è una serie costituita da undici elementi che Alessio Iacovone (Sulmona, 1988) ha realizzato utilizzando diverse modalità espressive: la fotografia si mescola al disegno e all’utilizzo di elementi materici ed evocativi come petali di fiori essiccati, ali di farfalla, ossi. Una riflessione che prende spunto da un trattato di alchimia di Paracelso e analizza un percorso di evoluzione spirituale che, attraverso la sofferenza e l’espiazione, arriva alla consapevolezza di sé e alla beatitudine o sublimazione della materia.

Tiziano Rossano Mainieri (Bologna, 1982) concentra il suo lavoro sulla fotografia paesaggistica. La serie Radici è una raccolta di gli scatti di un bianco e nero dove domina il tema della natura, la rappresentazione di un mondo che sta oltre la semplice percezione.

Le fotografie di Simone Morciano (Verona, 1983) fanno parte di un ampio progetto per il quale l’artista ha fotografato gli stessi luoghi in giorni, orari e condizioni metereologiche differenti. Fotografie che nascono come esercizi di osservazione e divengono veri e propri tentativi di riscoperta della realtà, una sorta di presa di coscienza del territorio circostante.

Luca Nicolini (Rovereto, 1985) presenta Ultimo Giorno di Luce, un soggetto che si basa sulla rielaborazione in chiave evocativa dei concetti di luce e di tempo, intesi come elementi propri dello specifico fotografico. La fotografia diviene un modo per tradurre il pensiero in immagini: le persone, riprese in maniera sfuggevole e indefinita, si dissolvono in un tentativo di riflessione sulla fugacità dell’esistenza.

Il progetto di Valentina Sala Peup (Monza, 1988) dal titolo Saudade nasce sottoforma di libro ed è composto fotografie accompagnate da due scritti tratti dal film “il cielo sopra Berlino” di Wim Wenders. Il termine Saudade, in portoghese, fa riferimento ad un singolare stato emotivo che l’artista cerca di catturare nell’immagine fotografica.

Sede: METRONOM | viale G. Amendola, 142 Modena
tel/fax +39 059 344692 | info@metronom.it | www.metronom.it
Orari: da martedì a sabato 15.00 / 19.00 e su appuntamento

TIME DUST


Metronom presenta Time Dust: una personale dell’artista Martina della Valle con un progetto inedito dedicato all’immagine del tempo e alla memoria delle cose esplorati attraverso un elemento immateriale, temporaneo e volatile come la polvere.

L’artista prende spunto dal rilievo di un archivio di famiglia costituito da materiali e oggetti per la lavorazione della ceramica. Il nonno materno era un ceramista e nel suo studio sono stati conservati disegni, calchi, spolveri, statuette e oggetti in ceramica di sua produzione, oggi ricoperti dalla polvere e trasformati dalla patina del tempo, che l’artista riutilizza e documenta fotograficamente al fine di attivare una seconda memoria.

Martina della Valle focalizza il suo sguardo sulla polvere depositata – un’ombra del tempo – per narrare “in assenza” la storia di questi oggetti. È il contorno delle cose messo in risalto dal pulviscolo a parlare di loro (e non il loro contenuto), in mancanza della loro presenza effettiva.

Il progetto della mostra è una narrazione per immagini di un processo creativo in assenza del soggetto, un lavoro sulla propria storia (il destino di essere artista) e sulla febbre d!archivio della nostra epoca, che diventa un’archeologia del tempo capace di creare dei sostituti di realtà e di trasformare i documenti nei nuovi “monumenti” di oggi.

Il tema della memoria nelle sue diverse accezioni è da sempre presente nel lavoro della giovane artista. Per questa mostra Martina della Valle presenterà un ambiente disegnato da un wall-drawing (realizzato con gli spolveri recuperati nell’archivio), da fotografie, oggetti e disegni.
La mostra è corredata da un catalogo con il testo critico della curatrice Marinella Paderni.

A cura di: Marinella Paderni

Inaugurazione: Sabato 16 Aprile ore 18.30

Date: 16 Aprile – 12 Giugno 2011