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Archivi delle etichette: Metronom

Ci sono persone


Ci sono persone cui le pitture e le sculture provocano uno stato di eccitazione sessuale; c’è chi le mutila e chi le bacia, chi piange in loro presenza e chi si mette in viaggio per vederle, chi ne viene lenito, chi ne è commosso e chi se ne sente incitato alla rivolta; c’è chi, per mezzo delle immagini, esprime un ringraziamento, chi si aspetta di esserne elevato, e chi ne viene innalzato ai massimi livelli di empatia e di timore. La gente ha sempre reagito in questo modo e le cose, oggi, non sono mutate. Ciò accade sia nelle società che chiamiamo primitive, sia nelle società moderne, a est e a ovest, in Africa, in America, in Asia e in Europa.

David Freedberg, Il potere delle immagini, Torino, Einaudi 1993

 

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©John Baldessari, The Giacometti Variations, 2010, Courtesy Fondazione Prada

Nel migliore dei casi


La premessa del realismo moderno è l’usura di tutte le coordinate teoriche e critiche su cui si era fondata l’arte contemporanea. L’estetica del Novecento, pur nella grande molteplicità e varietà delle sue manifestazioni, può essere considerata nel suo complesso come lo sviluppo degli orizzonti concettuali aperti da Kant e da Hegel: ora questi orizzonti sono stati esplorati in tutte le direzioni. Del resto da tempo gli orientamenti più innovatori della riflessione filosofica considerano l’estetica come un approccio riduttivo e inadeguato all’opera d’arte: tuttavia essi non sono riusciti a rifondare su nuove basi la specificità dell’esperienza artistica. Un deterioramento ancora maggiore ha corroso la critica d’arte: la problematica aperta all’inizio del Novecento dalla scuola di Vienna ha conosciuto una degradazione irrimediabile. Nel migliore dei casi essa produce discorsi che hanno un rapporto solo occasionale e fortuito con le opere e con gli artisti; per lo più essa non va al di là della cronaca e della promozione pubblicitaria.

Mario Perniola, L’arte e la sua ombra, Torino, Einaudi 2000

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©Marco Signorini, Anangram, 2016

la morte dell’arte


Non è vero, dunque, che l’arte sarebbe «morta». È vero invece che essa non ha più per noi moderni la natura dell’esperienza per eccellenza veritativa che ebbe nell’antichità greca. E che la sopravvivenza dell’arte è ormai indissociabile da un atteggiamento riflessivo, da una perdita secca di immediatezza, che coinvolge l’autoconsapevolezza dell’artista e la competenza del pubblico e inoltre lascia tracce determinanti nell’opera stessa, ne regola riflessivamente il medesimo funzionamento simbolico. Qualcosa come un «mondo dell’arte», separato dal mondo della vita e dai suoi valori spirituali decisivi, si sarebbe dunque costituito per noi moderni, ed è in quest’ambito che le opere sono divenute non solo comprensibili e importanti, ma anche oggetto di apprezzamento specifico, di studi specialistici e di interessi (critici, museali, mercantili) particolari.

Pietro Montani, L’immaginazione intermediale, Bari, Laterza 2010

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©Jon Rafman, New Age Demanded (Zigzagman Lichtenstein), 2012

molti fotografi professionisti


Il fatto che molti fotografi professionisti affermino di fare ben altro che una mera registrazione della realtà è il più evidente indice dell’enorme influenza che la pittura ha, a sua volta, avuto sulla fotografia. Ma per quanto i fotografi siano arrivati a condividere, in parte, i medesimi atteggiamenti sul valore intrinseco della percezione, esercitata come fine a se stessa, e sulla (relativa) non importanza del soggetto, che hanno dominato per oltre un secolo la pittura più avanzata, le loro applicazioni di questi atteggiamenti non possono essere eguali a quelle dei pittori. È infatti nella natura di una fotografia l’impossibilità di trascendere del tutto il soggetto, come invece può fare un quadro. E non può neanche andare oltre il visuale, cosa che in un certo senso è l’obiettivo supremo della pittura modernista.

Susan Sontag, L’eroismo della visione, in Sulla fotografia, Torino, Einaudi 2004

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©Nobuyoshi Araki, Paradise, courtesy Shiseido

al di qua


Se, secondo Platone, il sofisma del pittore consisteva nel dare a vedere il proprio “miraggio” solo a distanza, di quale miraggio si tratta oggi, con la televisione del mondo in tempo reale? L’apertura gotica dei grandi rosoni delle cattedrali, nella sua antica complicità con numerosi pittori e maestri vetrai, mi è sempre apparsa non tanto un’apertura sul cielo quanto sulla luce dell’al di là. Ma, ormai, con la trans-apparenza elettromagnetica, l’illuminismo teleobiettivo non sfocia che nell‘al di qua!

Paul Virilio, L’arte dell’accecamento, Cortina, Milano 2007

 

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©Thomas Struth, Duomo di Milano (facciata), 1998

aver visto tutte le foto


Non posso certo dire di aver visto tutte le foto. Non dico i notturni più importanti o celebri nella storia della fotografia. Neanche tutte le fotografie pubblicate di Olivo Barbieri. Né, come almeno la mia golosità desidererebbe, tutti i provini di queste sue notti. Ignaro, casuale, e solo pieno di passioni verso questo o quello, verso un libro o una esposizione (fin troppo naturalmente prediligo foto cieche o fatte da ciechi), conosco con eccessiva evidenza l’angoscia della fuga di immagini. Già un solo film (anche il più brutto dei filmetti porno) è per me un abisso di immagini, un insieme che non posso fisicamente percepire nei suoi tratti -fotogrammi per quanto io sappia che esistono, a differenza che nel (detto) vivere dove solo ne avverto le miriadi di salti, i punti di frattura e di passaggio insieme.

Enrico Ghezzi, A fuoco la notte? in Olivo Barbieri, Illuminazioni artificiali, Federico Motta, Milano 1995

 

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©Olivo Barbieri, Milano, Italy, 1989

Un prodotto del lavoro umano


Guardiamo dipinti, leggiamo poesia, ascoltiamo Bach o Stravinsky, e siamo consapevoli, inevitabilmente, che l’oggetto della nostra attenzione è un’opera d’arte. Un’opera nel senso di un prodotto del lavoro umano;  e anche qualcosa che cade sotto il concetto di arte. Scriviamo un romanzo, componiamo un brano musicale, facciamo un vaso. E di nuovo, alla fine non c’è semplicemente il frutto di un lavoro, poiché invece l’opera – la nostra opera, questa volta – è stata regolata dal concetto di arte. Quindi, sia come pubblico dell’arte sia come produttori di essa, sembra che siamo impegnati al tempo stesso da artefatti e da un concetto. L’arte e i suoi oggetti procedono indissolubilmente connessi.

Richard Wollheim, L’arte e i suoi oggetti, Milano, Marinotti 2013

 

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©Wayne Thiebaud Jolly Cones, 2002

Stiamo girando pagina


Stiamo girando pagina. La fotografia chimica ha raggiunto la maturità come cultura della visione e ha chiuso un ciclo. Se, più che una determinata tecnica di rappresentazione, era un sistema che intendeva la fotografia come una cultura particolare che sosteneva alcuni valori, dobbiamo ora capire se la fotografia digitale continuerà a sostenere quei valori o, giustamente, li sostituirà con altri. I metodi sono eredi del loro passato. Com’è noto, tutti gli elementi che intervengono nel processo fotochimico della fotografia erano conosciuti già prima della data della divulgazione del dagherrotipo: Aristotele menziona i principi ottici della camera oscura; gli alchimisti arabi conoscevano le proprietà fotosensibili dei sali d’argento.

Joan Fontcuberta, La (foto)camera di Pandora, Roma, Contrasto 2012

 

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Amc2 journal Issue 9, Amore e Piombo, London October 2014

Il dotto


Il dotto, che in fondo non fa che «compulsare» libri – circa duecento al giorno per il filologo medio – finisce con il perdere completamente la capacità di pensare per conto suo. Se non compulsa non pensa. Quando pensa risponde a uno stimolo (– un pensiero letto) – e alla fine reagisce e basta. Il dotto dedica tutta la sua forza a dire sì o no, a criticare ciò che è già stato pensato – ma egli stesso non pensa più… il suo istinto di autodifesa è infrollito; altrimenti si difenderebbe dai libri. Il dotto – un décandent. – L’ho visto con i miei occhi: nature dotate, ricche e libere, già a trent’anni tutti «morti dal leggere», ridotti come dei fiammiferi, che si sfregano perché facciano delle scintille – dei «pensieri». La mattina presto, all’inizio del giorno, freschi, all’aurora della propria forza, leggere un libro – bene, per me questo è vizioso!

 

Friedrich Nietzsche, Ecce homo. Come si diventa ciò che si è, Torino, Adelphi 1981

Playtime

 

 

 

 

 

 

©Isaac Julien, ECLIPSE (Playtime), 2014

Polvere senza significato


Nella misura in cui l’identità deriva dalla sostanza fisica, dalla storia, dal contesto, dal reale, non riusciamo a immaginare che qualcosa di contemporaneo (di fatto da noi) possa contribuire a costruirla. Ma il fatto che la crescita dell’umanità sia esponenziale implica che il passato a un certo punto diventi troppo «piccolo» per essere abitato e condiviso da chi è vivo. Noi stessi lo esauriamo. Nella misura in cui la storia si sedimenta nell’architettura, l’attuale quantità umana inevitabilmente esploderà e consumerà la sostanza precedente. L’identità concepita come questo modo di condividere il passato è un’affermazione perdente: non solo in un modello stabile di continua espansione demografica c’è proporzionalmente sempre meno da condividere, ma la storia stessa possiede una emivita odiosa: più se ne abusa meno si fa significativa, finchè i suoi vantaggi depauperati diventano dannosi. Questo assottigliamento viene esasperato dalla massa in costante crescita di turisti, una valanga che, alla ricerca perpetua del «carattere», macina identità di successo fino a ridurle in polvere senza significato.

Rem Koolhaas, Junkspace, Macerata, Quodlibet 2006

 

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©Takashi Homma, Shonan International Village 1, 1998